top of page

Le quattro parole dell'onda

 

Era dannatamente freddo. Un freddo orribile che correva su e giù per la schiena con quei piccoli denti d'umidità, velenosi e aguzzi, che lasciano segni perenni sotto la carne nel mallo delle ossa. Artrosi reumatiche e fitte e odore di disinfettante negli ospedali.

 

Era freddo. Avevo lasciato la macchina troppo lontano, obbedendo automaticamente alla prassi estiva del posto: «Per chi si alza tardi niente pietà, nessun parcheggio se non a chilometri». La cara legge plasmata d'immediata intesa  dalle mamme del mondo per trascinare i neonati in spiaggia alle sei e mezza e mandare all'inferno i passeggiatori della notte, i figli indegni del nostro indegno tempo. Era stata l'abitudine a ingannarmi. Succede spesso. L'abitudine ha un iter invincibile, che sfrutta ogni momento vuoto, ogni occasione, ogni volta che si abbassa la guardia, che si scivola dal procedere cosciente. E' indefinibile: non sai mai se tenerla amica o nemica, per tanto che se ne sta a metà tra lo squallore del trantran più smemore e la possessione del cavalcato da dio. Anche se mi pare di aver letto, che non è dio a sfruttare le pause di volontà, ma un certo demonietto parassita che conduce così la sua esistenza mondana intervallante. Mi sembra di avere riso al momento in cui lessi questa tesi, eppure ora credo che sarebbe in grado di spiegare alcune cose.

 

Freddo. Percorrendo il viale deserto, dall'auto fin giù alla scala verso il mare, mi si erano arrugginite le nocche delle dita, i piedi erano tutti d'un pezzo come zoccoli, piangevo dal lato estremo degli occhi una spremuta di sale, irritazione e solitudine, tenendomi in serbo per dopo la domanda centrale, ovvero «cosa ci faccio qui, a quest'ora e poi con questo tempo?» Non si sentiva un rumore prodotto dall'uomo, ma solo il respiro rauco rantolante del vento attraverso le balaustre del lungomare. Un cane apparve e scomparve.

 

Feci pesantemente uno a uno i gradini e atterrai sulla sabbia. Nera, compatta e ostile, cemento da castelli, più che giaciglio per il sole, ma non c'erano bambini-muratore, né palette. Non c'era niente di niente. Tranne cabine litorale mare. E freddo. E mare e mare, grigioverde, ribelle al morso, monaco fantasma, e in fondo là dove si arrende l'occhio la riga di Terminus, lo steccato. Ah, dimenticavo i portaombrelloni in fila, più che una presenza, un motivo ritmico, decorativo, vassoio per gli escrementi dei gabbiani, sgabello per il passante stanco. Come me.

 

Se non volevo ghiacciare, ferma dove stavo, a futura memoria d'esemplare per i successivi stadi darwiniani, dovevo muovermi di lì, andare oltre, essere fluida, immedesimare. «Cosa ci faccio…» Se si presta bene attenzione, mi avevano detto, se l'orecchio interiore prevale sulla pratica, si può sentire essudare dalle onde un monosillabo, l'Om del risucchio, l'origine del suono, il nucleo cristallino, la prima istanza vibratoria, insomma, se si torna a questa nostra aurora di sagrato, prima di ogni tempio, prima delle statue e degli altari, a pieni nudi scalpicciando sulla riva, il guscio si schiude, il sangue riconosce flusso da cui viene e il fiore della lingua sboccia naturalmente, senza sforzo, libero. Ci pensai su. La fonte era autorevole. Non mi sentivo di negare l'assunto. Provai un brivido.

 

Forse fu l'immagine di un profilo di nave all'orizzonte. Ferma come una nave dipinta in un mare dipinto. A fare click, a procurare lo scatto. Che questa sfida immensa, liquida, in attesa, si può percorrere, tiene a galla, porta di terra in terra, procura cibo a tutti, riflette il raggio, e un naufragio non è quello che sembra. Che esiste una porta tra le epoche e le epoche, una via da traversare su e giù a dispetto dell'orientamento, e che passa di qui, per la schiuma che schiaffeggia le grosse scarpe invernali, per le bottiglie di plastica rigettate tra le conchiglie e i bastoncini. Cosa ci faccio...

 

Andai più a sud scrutando il paesaggio che non mutava e i piedi che macinavano impronte, mentre le nubi viaggiavano in vortici, sempre più scure, mescolando i mazzi delle forme. Ora una cupola, ora le corna di un ariete, ora una torre, una muta di levrieri, un salvagente, una trottola, un lampione… La corda del palo che sorregge le bandiere segnaletiche sbatteva irregolare sul metallo con un suono cupo da basso elettrico, jazzato. Come quando tambureggiavo con le dita sul divano di pelle il mio disco preferito nelle sere passate in casa per non far tardi, che domani si lavora e ci si alza con dolore, e poi comunque a cosa servono gli altri, le uscite, quando ci si può accoccolare in taverna, fresca quando è caldo, irradiata dal camino quando infuria, immersa nella terra e intima, e soprattutto si è in due, non è vero? Già, a cosa servirebbe tutto il resto, se si potesse essere due?

 

Su questa striscia d'approdo, crestata da qualche scoglio nero, ti ho incontrato la prima volta. Ecco. Leggevi. E la tua ombra si stendeva curva sul lido, sottile come una piuma di pavone.  «Vecchio mio, non la smetti mai di appartarti e ruminare. Devo andar via? Lo so che non hai posto per nessuno…»

 

«C'è sempre posto per te nel cerchio della mia scontrosità, quando cammini, Barbara, scuotendoti sui fianchi, imprimendo al mondo l'attrazione centrifuga della luna, quando in notturno mette in scena lo show transumanante, la marea.» Così mi dici, sorridendo appena. Mi pare di arrossire. «Sono fatto in questo modo. Devo tracciare una qualche trincea contro il mondo, se non voglio soccombere al rituale demente che lo regge. Ma non mi scordo di costruirmi un canale per sporgermi di fuori, una finestra su di lui, sul mondo, per ballare al misterioso rito che lo scandisce. Di lì passeranno sempre voci come la tua, garrule, selvagge. Se sonnecchio, pazienza, mi sveglieranno. Sei stata carina a venir qui.»

 

Annuisco. Lì nella baia spira meno il freddo. Su, su, a picco sulla roccia, un ristorante panoramico. Aperto tutto l'anno. Getta un po' di luce su di noi, mentre tutto il resto s'abbuia. Anche il residuo del juke-box si avverte. Guardi pure chi vuole. Mi aggiusto, seduta per terra, con la schiena contro le tue ginocchia. Così, il mare è come un film. Mi frugo in tasca e accendo una sigaretta. «Ecco cosa ci faccio…»

 

«Che dici?»

 

Niente, non dico niente. Tiro su col naso, liberandomi la fronte dai capelli. Sono pesanti. Fradici di umidità. Chissà che aspetto orrendo. Un orecchino inizia a farmi male.

 

«Mi sei mancato. Pensavo che nella tua convinzione patologica di essere inattuale, non in atto, ma forse nemmeno in potenza, avessi rinunciato a farti vivo, a telefonare. Pensavo di avere fatto qualcosa per allontanarti. E che si fosse conclusa così la nostra stagione.»

 

«Pensavi. Non lo so se abbiamo altre stagioni. Si fa tutto sempre più complesso. Pare che ci sia altro da fare. Tu cosa dici, c'è?»

 

«C'è di sicuro. Prendere la corriera, fare bambini, risparmiare, tenere buoni rapporti con i vicini, gli idraulici, i colleghi. Tutte cose più difficili di Berio, più ostiche del Faust. Conservare la vis per i giorni, i mesi, gli anni dopo. Però, non so, c'è qualcosa che mi sfugge…»

 

«E' vero. Sfugge anche a me. Sto qui appunto per non dover dire che si stanno sbagliando, per non sentirmi dire che io sbaglio. Non è stato sempre lo stesso. Almeno, mi sembra di ricordare giorni diversi. Chissà poi se è vero. Qui si sta bene.»

 

Mi volto indietro per guardarti a fondo, mentre mi dici queste cose. Ma c'è il bavero del tuo impermeabile che mi tradisce, e poi c'è il buio. Devo crederti o non crederti così, senza elementi. Ti credo a metà. Qui c'è la luna, tanto grande e azzurra che spaventa e non lascia spazio per discussioni. Ogni giorno ha la sua fine. A proposito, quand'è la prossima? Tiro su con il naso. Mi scosto la frangia dagli occhi. Perché lascio sempre in macchina i fazzoletti di carta comprati dagli extracomunitari?

 

Sono incerta se dirtelo. So che lo sai. Hai la voce più bella del mondo, vecchio mio, tutto quello che dici sembra oro. Questo l'ho imparato da te: convincere, far piangere, innamorare. Sarà meglio muoversi. La mia schiena è più ghiaccia della notte. Facciamo così: di tanto in tanto rischierò il raffreddore; di tanto in tanto ti deciderai a raccogliere le tue ossa scricchiolanti fino a me. D'accordo?

 

Non te lo dico. Tu non mi rispondi. Per non andare via così ti lascio un bacio corrugato sulla fronte.

 

Prendo la strada del ritorno, sperando di non inciampare con tutto questo buio. Mi arresteranno? Una figura nera in mezzo alle ombre, di questi tempi,  può essere solo un ladro, un fantasma, un assassino. Vado più lenta dell'andata. E' vero. Qui si sta bene. Magari con un po' di sole, ancora meglio. E' possibile restare un po' più a lungo. La scala con l'illuminazione artificiale ha un aspetto più miserevole di prima. Ma d'estate qui le coppie vanno avanti e indietro cingendosi la vita, mostrando la loro gioia ai vecchi sulle panchine. E i vecchi sulle panchine non hanno mai gustato un tabacco più buono. E i ragazzi sfrecciano in biciclette, pattini, razzi d'oro. E i bar sull'altro marciapiede e i negozi sono tutti luce, musica, fiducia. Già. Già.

 

Giro il volto sulla spalla, mentre faccio i gradini, e guardo indietro. Si muovono nell'aria gli alti pennoni d'un trealberi, con le vele imbrigliate alle crocette, diretto al porto, controcorrente, muovendosi silenziosamente, nave silenziosa.

​

(pubblicato in Monna Vanna e monna Lagia. Brevi racconti inediti di 31 scrittrici italiane contemporanee, Edizioni del Girasole 1995)

bottom of page