Su di me
Sono nata a Bologna nell'aprile del 1964. Anzi, non a Bologna: in Bolognina, il quartiere della "Svolta" del 1989, con la più alta densità di cittadini di origine cinese, delle vetrine sfondate, della contiguità con la stazione. Anche se non ci vivo più, non lo considero un quartiere qualsiasi: ha nonostante tutto un sapore individuale, di paese, e, come tale, imprime in chi ci è nato quel marchio di appartenenza che è proprio delle patrie; è separato dal centro da un ponte e, al di là, si presenta immediatamente con il suo teatro, la sua chiesona (fornita di cinema!) e la sua farmacia, come qualsiasi paese che si rispetti; ha i suoi mercati, la sua Piazza dell'Unità, le sue case popolari e altre case, le cui ristrutturazioni non hanno dimenticato le origini contadine.
Non che mi senta una "ragazza di campagna", al contrario. La prima volta che ho visto un maiale ho pianto perché mi sembrava un essere di assoluta, mostruosa, alterità. Sono allergica a quasi tutto ciò che è "rurale", dai pollini all'odore di erba tagliata, dalle punture di insetto alla forfora degli animali, e mi sento a casa soltanto tra pietre lavorate da mano umana, che siano i ruderi della cattedrali irlandesi, gli stone circles celtici, gli archi di Karl-Marx-Hof o i musei d'arte moderna delle metropoli. Però provo simpatia per le persone e per i posti che non fanno finta di essere diversi da quello che sono attraverso più o meno raffinate operazioni di makeup sovrapposti.
Amandola o detestandola, da Bologna non mi sono mai spostata. Ha, Bologna, quella qualità melliflua e un po' paludosa per cui, una volta entrato nel suo raggio d'azione, non riesci più facilmente a uscirne, un po' Castello d'Atlante, un po' alveare di Matrix che ti fa credere che in fondo ci si vive al meglio ed è "dal månnd la piò bèla zitè". Non che non ci abbia provato, a spostarmi, semplicemente non ci sono ancora riuscita. Ho tentato di fare l'Università a Ginevra, ma non ho avuto il finanziamento dei miei familiari (né il coraggio di andarci comunque, "senza portafoglio"...). Ho lavorato nel Canada e negli Stati Uniti, ma solo per fiere momentanee; più tardi ci ho riprovato all'interno dei confini nazionali, girando tra le redazioni del "Piccolo" di Gorizia e della "Nazione" di Perugia, ma ho concluso che non mi piaceva fare la giornalista; ho provato a mandare in avanscoperta mio marito a Edimburgo, ma è tornato indietro pure lui. E dire che a Bologna non c'è neppure nato.
Da qualche anno ho chiuso il cerchio della mia immobilità, andando a insegnare nello stesso liceo in cui mi sono maturata. Mi consolo perché girando per i corridoi ci si può illudere di sentire ancora un'eco della voce, nuda e un po' chioccia, di Pasolini. Ho un figlio grande, nessun animale domestico, nessuna pianta sul terrazzo perché il giardinaggio non è mai stato il mio forte, una sola auto che condivido con mio marito, una bicicletta gialla e un appartamento in una discreta zona della prima periferia. Ho sempre pensato che, se un giorno dovessi finire su una antologia scolastica, nel paragrafo della mia biografia scriverebbero quella formula terribile che si utilizza per i poeti più impauriti e crepuscolari: "la sua vita fu sostanzialmente priva di eventi esteriori..." Il che forse è anche vero, se per "eventi esteriori" si intende: partecipazione a guerre o rivoluzioni, cataclismi, sciagure familiari, malattie devastanti... Il che con ogni probabilità rende qualsiasi mia nota biografica di zero interesse. Perché la sto scrivendo? Perché la stai leggendo?
Inizialmente ci sono stati sicuramente più libri (a questo proposito un'intervista si può ascoltare qui) che eventi nella mia vita. Ma a essere sincera non posso dire che sia ancora così. E' solo che gli "eventi nella mia vita" sono sostanzialmente le relazioni. Humani nihil a me alienum puto, recita la famosa frase di Terenzio, e in effetti gli esseri umani mi interessano. Direi che mi interessano tutti, con una predilezione - sfumata di invidia e di struggente preoccupazione - per quelli più giovani di me. C'è un motivo, no?, per cui adesso sono insegnante.
Il fatto di essere nata nel "più crudele dei mesi" e che alla fine del secondo movimento della Terra desolata mi sia rivolto un affettuoso "buonanotte Lou" (il mio nomignolo da quando ai tempi del liceo, appassionata fanatica dei Velvet Underground, mi è capitato sotto mano un libro di Lou Andreas Salomé che mi ha convinto di tante cose, tra le quali che Lou poteva essere un nome femminile...) mi ha condannato a diventare un'eliotiana devota, ma non sono rimasta lì. Mi sono lanciata nell'ardua impresa di trovare dei grandi scrittori, magari delle grandi scrittrici, che avessero anche delle convinzioni migliori. E questa ricerca mi ha permesso di incontrare il secondo-amore: la traduzione. Per alcuni è un lavoro, per altri (soprattutto nel caso delle versioni di latino...) è una tortura insensata: per me è il luogo dove abitare le contraddizioni, riposare dalle fatiche, ingaggiare le lotte, fermarsi nell'ascolto dell'altro. Sì, ecco. Non il secondo-amore. L'altro-amore. L'amore dell'altro. Dentro e fuori di me.